(Nell’episodio precedente, abbiamo letto un tema scolastico del piccolo semianalfabeta Alan Scuro. Lira lo ha sottratto da casa sua, prima di fuggire per il campo di pomodori insieme al Prestabilito Aiello Lightbeam. Ora invece verremo catapultati in un altro tempo e in un altro posto, forse per permetterci di indagare su certi moti relazionali del passato, fondamentali alla storia principale, o semplicemente perché, le maestranze artistiche, in attesa di ricevere proprio il proseguo della trama principale, si sono viste costrette all’utilizzo di certo vecchio materiale appena abbozzato, abbandonato mesi fa dal mangaka nel loro fatiscente piccolo studio di animazione, in una giornata di pioggia e miseria…)
2004, Grecia
Alan Scuro e Didamante erano seduti in un locale niente male, il Tempietto di via Ermou. La vivace e affollata notte ateniese sembrava promettere di trasformarsi presto in un indelebile ricordo di baldoria, complicità e profonda amicizia, mentre, tutt’intorno alle bianche vie che portavano all’acropoli, il grecale sospirava spuma marittima agli affaticati ulivi notturni, come a curarne amorevolmente le cesure inferte dal giorno di raccolta.
Anche quell’anno, come ogni anno da quando nel Cosmo di Nessuno si erano conosciuti, anziché cercarsi una moglie e dare alla Terra un primogenito maschio, un Prestabilito, che potesse prendere il loro posto nelle cabine fosforescenti dei rispettivi robottoni, i due eroi se la stavano spassando alla grande, brindando all’oggi che sapeva d’alloro e libertà, anziché al loro spaziale futuro, che sapevano sarebbe stato puzzolente e ricolmo di indiscutibili doveri e responsabilità.
– Allora, facciamo un gioco, Alan – disse Didamante, osservando il volto deformato dell’amico attraverso l’ouzo. Aveva levato il bicchiere ghiacciato fino allo sguardo, seminascosto dai riccioli color del grano, e faceva finta che fosse una lente d’ingrandimento. – Sai, Alanuccio, così la tua testa sembra più grande. Staresti bene con più cervello!
– E tu staresti bene senza testa, – scherzò Alan Scuro lisciandosi i capelli neri di gioventù. – No, Dida’, proprio non me la sento di fare uno dei tuoi mortali giochi alcolici. Andrebbe a finire come sempre, tu rimorchi e io rimetto.
Detto questo, Alan Scuro avvicinò il proprio bicchiere di italianissimo mistrà a quello dell’ellenico ouzo dell’amico Prestabilito al Rodi-Tob. Dalla bicchiereiforme lente d’ingrandimento, Didamante lo vide ingrandirsi sempre più, fino al piovoso brindisi.
– E dai! Me lo rovesci tutto addosso così… – disse Didamante accarezzandosi la tuta metallizzata a bande rosse. – Questa è guerra, se non vuoi giocare, sarò costretto a ricorrere al guanto di sfida definitivo.
– No, ti prego, Didamante, non farlo! Ho già mal di testa…
– Mi dispiace, Alan Scuro, lo hai voluto tu.
Gli occhi di Didamante si accesero della minacciosità del mare aperto, mentre la sua lingua rosea, come una lancia inarrestabile, pronunciò le parole con cui nessun amico italiano etero e col mal di testa avrebbe mai voluto essere trafitto: – Alan Scuro, se sei un uomo, giochi.
– Gioco. Cosa hai in mente?!
– Andiamo a piedi al Partenone, ma…
– Ma? No, non dirmi che vuoi…
– Esatto, Alan scuro, – disse Didamante, abbassando il capo al passaggio del sedere di una cameriera. La bella ragazza aveva un tulipano tra i capelli e gli aveva sorriso, togliendogli per un attimo la parola, – ci fermiamo in ogni cazzo di bar a prendere un cicchetto!
– E cosa cambierebbe dal solito giro?!
– Cambia che questa volta ci fermeremo anche nei ristoranti, nelle gelaterie e nei night. E in ogni posto aperto dovremo prendere il nostro cicchetto preferito. Io il mio squisito ouzo e tu, il tuo ributtante mistrà.
– No, Dida’, io non me la sento… Mi sono già fatto tre birre medie e questo, squisito, mistrà. Voglio una pita con carne speziata e salsa tzatziki.
– Va bene, andiamo a prenderci solamente una pita. Ma sappi che non sei un uomo.
– Va bene, ci sto, infame bastardo figlio di tua madre, santa donna. Ma offri tu.
– Alan, siamo piloti della Chimichanga Dam, abbiamo letteralmente soldi infiniti.
– Offri tu lo stesso. Oh.
Quella notte, dove ancora il grecale insisteva i suoi odori dalla città nuova all’acropoli, poteva andare in due modi. Alan Scuro e Didamante potevano fare gli scemi lungo le candide viottole ateniesi, per poi venire raccolti come vetri rotti all’alba dai furgoni verde acido dei Secret, oppure… No, ora che ci rifletto bene poteva andare solo in quel modo.
Al decimo bar, alla quarta gelateria e dopo ben tre sguardi d’odio da parte dei camerieri di tre diversi ristoranti, che si videro costretti a recapitare a quei due ubriachi in tuta aderente il conto di soli due cicchetti, ah, e dopo un night dal quale erano stati sbattuti fuori da un gigantesco moderno oplita, Alan Scuro e Didamante erano talmente ubriachi, rispettivamente di mistrà e ouzo, che vedevano le stelle più da vicino di quando tra le stelle erano costretti a combattere.
Continuarono così la loro malsana trasvolata da un bar all’altro, fra la gente, l’aglio delle taverne e le possibilità che la vita aveva loro da offrire, sorridendo, scherzando e fischiando a tutte le gonne che il tramonto dell’estate non aveva ancora portato alla resa. Diverse volte levarono le gambe in vili corse sconnesse, ubriache, per sfuggire all’ira dei fidanzati che avevano infastidito. Correvano tra i pungenti fichi d’india oltre gli usci delle case, correvano, fra i panni stesi che staccavano dai fili per ulteriore scherno alla decenza. Correvano, come due bambini di appena trent’anni. Correvano, finché Alan Scuro non finì nel cassone di un camioncino arrugginito pieno di olive verdissime, e allora smisero di correre e iniziarono a ridere, assaporando l’amaro succo oleoso della vittoria non appena l’altro diceva: – Se sei un uomo, te la mangi!
Erano Prestabiliti, erano giovani eroi. Erano immortali.
Erano due anni che Alan Scuro e Didamante passavano la loro vacanza ottobrina in Grecia. Si era detto una volta in Grecia per Dida’ e una in Italia per Alan, ma Didamante aveva insistito anche quell’anno perché la nonna stava molto male. E quel momento insieme, di inestimabile amicizia fra il vento caldo che regalava mulinelli di fiori d’arancio alle stelle, Alan Scuro non smetteva di pensare che avrebbe fatto bene al suo fidato commilitone. Lo avrebbe distratto dal dolore di una prossima, certa, dolorosa perdita, vissuta, anziché al capezzale della cara nonnina, ai confini dell’universo, combattendo il maleodorante male che minacciava il pianeta.
– Alan, ti prego… Povera nonna Ilia, possiamo tornare in Grecia anche questo ottobre?
– Certo, amico mio.
Questo si erano detti, in un abbraccio che sapeva di complicità e comprensione.
Un locale dopo l’altro, i due amici, ripulite come poterono le tute spaziali dalle macchie violacee e dalle foglie, continuarono a bere i loro cicchetti di mistrà e ouzo. Non c’erano enormi sciami di cimici a inseguirli, né robottoni con cui combatterle a suon di Gladio Oscuro e Lancia Pulsar. Non c’era il solo spazio profondo che rimaneva dopo gli attacchi nemici, né i conati di vomito causati dalla zuppa giornaliera di Bobik. C’erano solo immagini di un’ateniese notte infinita, che, almeno per Alan Scuro, si stava facendo sempre più strana.
Si era fatto tardi. Nonostante gli sforzi, il Partenone, il tempio dorico dalle imponenti colonne a sorreggere il ricordo di dei perduti, candido in lontananza, lassù sull’acropoli antica dove maestoso si ergeva immortale, era ancora lontanissimo. Non senza difficoltà, Alan Scuro si accorse che in tutta quella notte di baldoria, i due amici avevano percorso a malapena Ermou street, non a caso la via più pregna di locali di tutta la città.
Il nostro eroe aveva iniziato a vedere come se qualcuno avesse disegnato singole immagini su di un quaderno, e ne facesse scivolare i fogli per animarle. Sapeva che gli inframezzi tra quelle vaghe illustrazioni della realtà sarebbero stati come attimi mai vissuti, cancellati via via dal suo cervello immerso nell’alcool, ormai incapace di elaborare la complessità del mondo esterno. Era ubriaco marcio e il retrogusto acidulo di olive fresche di raccolta fece il resto.
Alan Scuro riparò in un vicolo per vomitare. Quando tirò su la testa si accorse che per strada non c’era più nessuno, né le ragazze dalle gonne svolazzanti, né i fidanzati pronti a picchiarlo. Ma l’entità la cui scomparsa più preoccupava il nostro ebbro Prestabilito dai capelli non ancora tinti, era quella del suo amico e compagno di mille battaglie. Didamante si era volatilizzato nella notte profonda, insieme al grecale marittimo e ad ogni notturna promessa di immortalità.
Col volto bianco come il marmo della statua di Atena, Alan Scuro barcollò come poté a ritroso. La preoccupazione per Didamante era tanta e superava addirittura quella per la propria salute, visibilmente in pericolo. Nella sua mente confusa, Didamante poteva essere stato rapito, torturato o ucciso da un malintenzionato che aveva scoperto il suo cruciale ruolo di Prestabilito. Magari un supercattivo che voleva che le cimici conquistassero la Terra. E ora, uno alla volta, gli scagnozzi del supercattivo stavano incappucciando e trascinando nella sua base segreta i sette piloti dei Tob, legandoli a una corda sospesa su di una maleodorante pozza di acido verde scavata nella roccia. Con una risata malefica, il Supercattivo avrebbe poi lasciato lentamente scivolare la corda del malcapitato nel raccontargli il proprio folle piano, per poi tirarne rapidamente su dalle bolle lo scheletro ancora urlante di dolore. Così il robottone Rodi-Tob di Didamante, che come Alan Scuro ancora non aveva un erede, sarebbe stato reso inutilizzabile e, peggio, perdendo il nipote, la povera nonna Ilia avrebbe patito il dolore più grande, quello di sopravvivere, seppur per pochi respiri, al prestabilito sangue del suo sangue.
Fu a questo e ad altri scenari ben più tragici che Alan Scuro pensava, impattando contro tutti i vasi di fichi d’india di via Ermou. Costeggiava gli alti marmorei caseggiati, dal color crema e terra e grigio fumo laddove c’erano le taverne che lo avevano ridotto così, con entrambe le mani spalmate sulla parete senza appigli, come se si trovasse sull’orlo di un mortale precipizio di ferrose rocce taglienti. Quello che lo faceva andare avanti era la disperazione per l’amico perduto, la stessa di chi, nella fangosa terra di nessuno, rischia la vita per salvare il cadavere di un affezionato commilitone.
– Didamante è come se fosse un fratello per me, – biascicò Alan Scuro, – non permetterò mai al Supercattivo di scioglierlo nell’acido. Deve andare dalla nonna malata domani. Devo vomitare ancora.
“Au dessus des vieux volcans, Glisse des ailes sous les tapis du vent, Voyage, voyage, Éternellement…”
Questa volta Alan Scuro rigettò saliva all’anice stellato davanti all’ingresso di un locale dalla facciata grigio fumo a scacchi bianchi. Era giunto il quel posto inconsapevolmente, seguendo come un miraggio la scia di una canzone cui ritmo anni ’80 conosceva benissimo. Se anziché fare il Prestabilito avesse potuto fare il disc jockey, l’avrebbe scelta come ballo finale, quello dove l’amore stringe le coppie in una sensuale anticipazione di ciò che sarà la notte.
“De nuages en marécages, De vent d’Espagne en pluie d’équateur, Voyage, voyage, Vole dans les hauteurs, Au dessus des capitales, Des idées fatales, Regarde l’océan…”
Nessun supercattivo avrebbe scelto un simile brano per porre fine alla vita del suo fidato amico Didamante, eppure Alan Scuro si convinse che questo fosse ciò che il Supercattivo dei supercattivi avrebbe voluto fargli credere per portare a termine il suo folle piano.
“Voyage, voyage, Plus loin que la nuit et le jour, Voyage, voyage, Dans l’espace inouï de l’amour…”
Alan Scuro lesse l’insegna: La Tavernetta di via Ermou.
– Ho avuto il Supercattivo sottocchio per tutta la prima parte della serata e non me ne sono nemmeno accorto – si disse il nostro eroe aprendo le porte del locale, ma non senza aver calpestato prima il proprio cattivo umore.
“Voyage, voyage, Sur l’eau sacrée d’un fleuve indien, Voyage, voyage, Et jamais ne reviens...“
Dall’altra parte del bancone, un barista mascellone e con gli occhiali da sole sembrò non fare caso alle macchie che il pilota di robottoni lasciava, col piede destro, lungo il suo breve cammino fino alla gremita sala da ballo, dove la musica era più viva. Fra i ragazzi intenti a ballare quell’incalzante ritmo del periodo più felice dell’umanità, il Supercattivo teneva stretto il suo compagno di mille battaglie.
“Sur les dunes du Sahara, Des îles Fidji au Fuji-Yama, Voyage, voyage, Et jamais ne reviens…”
Ed era pronto a ucciderlo. Solo che anziché scioglierlo nell’acido, voleva, sempre secondo la mente annebbiata dell’eroico Alan Scuro, iniettargli del veleno in bocca usando le sue mefitiche ghiandole sublinguali.
I riccioli biondi di Didamante si stavano pericolosamente avvicinando al tulipano che il supercattivo aveva impigliato fra i suoi. Nel ritmo incalzante dell’atmosfera spensierata di un ballo palpitante, quel bacio mortale avrebbe sottratto Didamante al mondo intero e alla sua morente nonna Ilia.
“Voyage, voyage, Plus loin que la nuit et le jour, Voyage, voyage, Dans l’espace inouï de l’amour…”
– Non posso permetterlo – disse Alan Scuro a sé stesso, – ti salverò, amico mio.
Fu così che Alan Scuro si gettò sulla faccia sconvolta un bicchiere con del ghiaccio preso da un tavolinetto. “Voyage, voyage, Sur l’eau sacrée d’un fleuve indien, Voyage, voyage, Et jamais ne reviens…” Poi, radunate le forze, si scagliò contro il Supercattivo dei supercattivi, colpendola sul viso armonioso con un pugno poderoso come quello di un robottone, che la fece letteralmente volare via.
“Voyage, voyage, Éternellement.”
– Che diavolo hai fatto, Alan Scuro?! Sei impazzito?! – urlò Didamante vedendosi volare via dalle labbra la cameriera che, l’anno successivo, se fosse sopravvissuta, sarebbe divenuta sua moglie.
– Ti ho salvato la vita. Il mondo non può perdere la Lancia Pulsar e tua nonna non può perdere te. Dovere, amico mio.
Petali di tulipano scesero sul silenzio generale, venuto inevitabilmente a crearsi dopo il supercattivicidio. La cameriera, svenuta sul pavimento con gli occhi spalancati, sembrava inspirare aria ed espirare sangue e denti.
Vedendola prossima alla morte, Didamante non spiegò ad Alan Scuro che sua nonna Ilia in realtà stava benissimo. Non gli spiegò che l’anno precedente aveva conosciuto quella cameriera e che si era inventato tutto per incontrarla di nuovo. Non gli spiegò che, con la complicità di alcuni Secret baristi, lungo il fallimentare viaggio verso il Partenone si era fatto sostituire l’ouzo con l’acqua, parimenti incolore, per liberarsi di quell’amico dai capelli non ancora tinti, divenuto da complice essenziale a fardello del proprio nascente amore. Non gli spiegò altro che quel vendicativo pugno in faccia, che il Prestabilito greco inferse di getto sul volto del supercattivicida italiano, col braccio dritto e teso, come quello del suo Rodi-Tob in affondo di lancia nel carapace di una infame Cimicicciona.
– Se sei un uomo, me ne dai un altro, Didamante!
– No, tu se sei un uomo me ne dai un altro, Alan Scuro!
Quell’alterco fu l’inizio di una lunga battaglia. Alan Scuro e Didamante se le diedero di santa ragione, un pugno dopo l’altro, fino ad ritrovarsi, logori e sanguinanti, ai rispettivi UFO-Pentola con i quali erano approdati ad Atene. Poi la battaglia si spostò nei cieli notturni, divenendo una folle corsa che sprigionò lampi verdi sotto le stelle di tutto il pianeta. Il giorno successivo, la Chimichanga Dam avrebbe emanato a tutti i governi lo stesso dispaccio: Dite alla vostra popolazione che erano fuochi d’artificio, nessuno si informerà. Fortunatamente non abbiamo ancora concesso al pianeta Terra la tecnologia per degli smartphone con una fotocamera decente, quindi non preoccupatevi, nessuno indagherà oltre senza prove. Tranne forse qualche screditabile ufologo con la carta stagnola in testa.
All’alba i due Prestabiliti, entrambi vinti dalla stanchezza, ma non ancora persuasi a porre fine alla lotta, atterrarono nella Base Artica 211 della Chimichanga Dam. Non avevano più forze in corpo, tuttavia l’odio ebbro di Alan Scuro e quello d’amore cavalleresco di Didamante avevano ben altri corpi da usare, i corpi d’acciaio dei loro formidabili Tob da guerra.
Alcuni Secret presenti nella base parleranno di tre ore, altri di tre giorni e alcuni, i più fantasiosi, di tre settimane. Ma nessuno sa con precisione per quanto tempo i due robottoni se le diedero. Sappiamo solo, per via del fatto che i piloti ne uscirono vivi, che nessuno dei due utilizzò le proprie micidiali armi in dotazione. Difatti, non appena i Prestabiliti entrarono di corsa nelle rispettive cabine fosforescenti del Remo e del Rodi-Tob, lasciarono cadere, spaccando fragorosamente i ghiacci perenni sottostanti, rispettivamente Gladio Oscuro e Lancia Pulsar, e iniziarono, a suon d’acciaio di meccatronici pugni oscuri e dorati, a fracassarsi di botte senza alcuna tregua; se non per capire dove imprimere il prossimo colpo avrebbe potuto costringere alla resa l’inatteso avversario.
Sarà l’allora Secret cadetto One Secret, su ordine della più alta sfera della Chimichanga Dam, a ritrovare i due robottoni non appena la scia di distruzione.
Di ritorno alla verdissima torreggiante base, il giovane One non seppe dire chi dei due – forse non più amici – avesse vinto quella battaglia. L’unica cosa che disse, alla squadra di ricerca incaricata di recuperare i due Tob, fu che questi si trovavano dove la bussola impazzisce, nel punto più a Nord della Terra, coperti da uno spesso lenzuolo di neve fresca e abbandonati in un fraterno, nonché commovente, abbraccio da veri uomini. Da veri amici.
(Continua…)
L’Episodio XXII di Alan Scuro – Lira in asciugamano – verrà pubblicato, sempre qui, il giorno 16-06-2023, alle ore 00:00.
Grazie per il vostro tempo. L’autore, Francesco Maurizi
(La storia, i luoghi e i personaggi di questo e di tutti gli altri racconti presenti in questo sito, sono frutto della fantasia dell’autore degli stessi, Francesco Maurizi, e come tali, sono protetti dal diritto d’autore.)