(Nell’episodio precedente, Alan Scuro racconta a Lira, per la seconda volta, la storia di Aiello Lightbeam, il Prestabilito americano pilota del robottone Faro-Tob…)
Aiello aveva solo sedici anni quando scoprì di essere un Prestabilito.
Una email ufficiale della famiglia Lightbeam, arrivata alla casella di posta di un rinomato orfanotrofio di Boston, aveva asserito che il ragazzo avrebbe dovuto presto fare le valigie, perché Aiello, anziché essere un semplice orfano, era in realtà il primogenito di una delle famiglie più ricche e potenti d’America. I Lightbeam, la stessa famiglia che, quell’orfanotrofio, lo possedeva.
L’email ufficiale diceva anche che il ragazzo, per la sua salvaguardia, avrebbe dovuto presentarsi presso un luogo che non era dato sapere a nessuno e in una data non certa, e che sarebbe stato scortato dal furgone dei gelati. Quello dello Zio Elvis, il buon gelataio che, tutti i mercoledì, con il sole, con la pioggia o con la neve, faceva tappa fissa all’orfanotrofio, per addolcire la solitudine dei suoi piccoli e sfortunati ospiti.
Senza pensarci due volte Aiello acconsentì, anche perché gli orfanotrofi Lightbeam erano famosi per la loro intransigenza nei confronti dei ritrosi. Ma Aiello un ritroso non lo era mai stato, anzi, quel ragazzo esile dal naso vagamente dantesco e dai capelli corvini a oscurargli l’occhialuto sguardo intenso, era stato da sempre il vanto dell’istituto, osannato e celebrato dai professori in tutti i concorsi matematici che, senza ricevere nulla in cambio, vinceva per conto loro.
Non c’era da stupirsi. A diciannove mesi Aiello aveva letteralmente inventato la matematica. Nessuno gliel’aveva mai insegnata ma guardandosi le mani gli era venuta un’idea.
Disegnò un cerchio e lo divise in spicchi come il numero delle sue dita. Poi ne colorò uno, lo guardò e alzò l’indice. In un altro cerchio fece lo stesso ma alzò due dita e colorò due spicchi. E subito dopo lo rifece con tre. L’idea gli era venuta perché aveva notato che gli orfani più grandi litigavano su quanti pezzi di pizza il venerdì spettasse a ognuno, e ad Aiello, che in quegli orfani vedeva la sua famiglia, proprio non stava bene.
Mettendo vicino un cerchio con uno spicchio annerito e uno con due spicchi anneriti, gli venne naturale disegnarne un altro con tre spicchi anneriti. Così si accorse che esisteva una progressione e che, soprattutto, il terzo piatto di pizza stilizzato era la somma dei primi due. Era l’addizione, che Aiello simboleggiò con una croce, simbolo onnipresente nel suo orfanotrofio di stampo cattolico.
Poi per la sottrazione ricordò di quando Martin gli aveva preso un pezzo di pizza dei tre assegnati a ogni orfano. Mise un cerchio-tre e un cerchio-uno in progressione e poi disegnò un cerchio-due. Era la sottrazione e come simbolo Aiello aveva usato un trattino, perché così anche alla croce mancava un pezzo come era mancato a lui per colpa di Martin del secondo anno delle medie.
Per la moltiplicazione usò una croce che si era inclinata per la maggiore gravità del calcolo, mentre per la divisione due puntini perché erano carini. Pensate che stupore quando a tre anni, nella classe di matematica con quelli di otto, Aiello scoprì che i simboli che aveva usato per le operazioni erano gli stessi della matematica classica! Si sentì come se li avesse sempre avuti nel sangue.
Così Aiello passò l’infanzia a riempire lavagne di pizze stilizzate. Non gli piacevano i numeri arabi perché diceva che lo annoiavano e che era meglio la pizza. Ora capisco.
All’età di otto anni il piccolo fenomeno era quasi in procinto di laurearsi, tuttavia nella sua tesi sosteneva che nella matematica vi fosse qualcos’altro che non andava. Era tutto troppo semplice.
Un numero, poi un altro, verso l’infinito e basta. Poi lo zero, un’assurdità, perché se sulla cattedra non c’è nemmeno una pizza questo non vuol dire che vi siano zero pizze. La pizza vi esiste in quanto assente proprio perché io riesco a immaginarne l’assenza. Emerge, come dal nulla, un’idea dell’oggetto che ha già alcune proprietà dell’oggetto, seppur non tutte, tanto che a pensare a lungo a una pizza assente viene l’acquolina. Così se poniamo che in astrazione l’assenza possa esistere, seppur in parte, ebbene, in astrazione anche le fatine esisteranno in quanto assenti, o i draghi e perfino i robottoni dei cartoni animati. Ma questo vi spaventa. Inventando lo zero voi matematici avete cancellato una grossa fetta dell’esistente nascosto e per questo ora vi sentite di aver capito tutto, pur non avendo capito niente. Anzi, quasi niente, perché il niente non esiste se non per quel vuoto che è al di là dell’infinito e che, se studiato, permetterà alla razza umana di superare la velocità della luce. Ma questa è un’altra storia. Solo cancellando l’insieme di tutto il sapere scopriremo altro, dovete credermi, esimi colleghi. C’è un Numero che non conoscete e che permette di creare, perché nulla nasce dal niente, né una pizza, né, tantomeno, l’Universo. Il problema è che nemmeno io lo conosco, perché so troppe cose. Tuttavia il simbolo di quel numero dovrebbe essere un cerchio tutto nero con al centro una spirale bianca. Semplice! Di questo ne sono già più che certo – enunciò Aiello masticando una caramella davanti a quella platea di imperniati professoroni, chiamati a giudicarne la sua tesi speculativa sui Numeri Piucheimprobabili.
Ci fu qualche minuto di silenzio, rotto solo da qualche voce borbottante sotto a baffi e barbe ingiallite. Poi l’aula magna del MIT scoppiò a ridere in faccia a quel bambino, senza alcun ritegno e senza curarsi dei suoi fragili sentimenti.
Per difendere la scienza, o meglio il credo, che per tutta la vita aveva dato loro da mangiare, fama accademica, una villa e un’auto blu, quei baroni coi paraocchi avrebbero fatto qualsiasi cosa, compreso il canzonare il bambino prodigio col dono della sottrazione d’insieme.
– E dunque, – chiese baldanzoso un professorone coi baffi ancora sporchi dalla colazione, – lei, giovane Aiello, dopo una decina di esami sostenuti, va detto, egregiamente, avrebbe fatto qui riunire tutti noi matematici per affermare, in bermuda, che la matematica è sbagliata?
– Esatto, – rispose il bimbo sistemandosi gli occhiali, – vedo che almeno questo l’hai capito.
– E dunque, lei afferma che non esiste perché non esisterebbe lo zero, giusto?
– Esatto.
– E cosa accade se ci sono dieci uomini in una stanza?
– Che ne so io? Forse faranno amicizia. Di certo non procreeranno.
– Non capisce, piccolo Aiello, quanti uomini sono in quella stanza?
– Lo hai detto tu, ma te lo ripeto. Dieci.
– E se ne facessi uscire uno?
– Gli altri sarebbero tristi. O felici. Dipende da chi faresti uscire. Se esci tu, felici.
– Parliamo di matematica, signorino Aiello, non di sociologia. Se ci sono dieci uomini e ne esce uno, dall’insieme di dieci va sottratta una unità, e dunque ne resteranno solo nove. Se ne escono due, otto. Tre, sette. Quattro, sei. Cinque, cinque. Sei, quattro. Sette, tre. Otto, due. Nove, uno. E finalmente, increscioso che lei me lo faccia affermare in questa sede, se dovessero uscire tutti, in quella stanza non rimarrebbe nessuno. E dunque, zero sarebbe il numero degli uomini, e l’insieme-stanza verrebbe così a contenere zero unità.
– Gli insiemi non esistono. Quando ti chiedi quanti uomini vi siano in quella stanza quando tutti ne escono in realtà tu vi stai generando qualcosa. Tutti, nessuno, dieci, zero. Chissà, tuttavia la stanza nella tua mente contiene un dubbio a forma di uomo, immaginalo come un uomo stilizzato con sul petto una spirale. Ecco, quello è il numero improbabile che stiamo cercando, capace di generare, attraverso la nostra mente, fluttuazioni spazio temporali generative. Dei piccoli Big Bang se vogliamo. La possibilità che si fa sostanza, questo è il Numero che cerchiamo. Increscioso che tu me lo faccia affermare in questa sede, – rispose Aiello con supponenza, scrollando le spalle.
A quelle parole il borbottante terrazzamento di allori che era quell’aula si congelò. Anche il professorone dei professoroni, per un istante, col suo silenzio, sembro aver preso sul serio le parole del piccolo Aiello, cui autorità derivava principalmente dal fatto che dietro di sé avesse una gigantesca lavagna verde scuro, riempita tutta da solo col gessetto bianco e con l’aiuto di una scala. Era una lavagna piena di cerchi diversi e simboli che il ragazzo aveva visto in chiesa e riadattato per i suoi fini. L’ultimo cerchio a sinistra era il risultato, un cerchio nero con al centro una spirale bianca esile come uno spaghetto.
Nel complesso quello alla lavagna era il più difficile dei Problemi per il Millennio, arcani della matematica impossibili da dimostrare ed era stato vergato con la simbologia inventata dal giovane orfano. Aiello Lightbeam, inconsapevole discendente di colui che sbrogliò il nodo Gordiano, aveva risolto quel problema impossibile dando una spadata alla matematica stessa. Tuttavia il nuovo problema era che nessuno riusciva a leggere i suoi simboli.
Aiello diede un occhio alla lavagna, e subito lanciò uno sguardo di sfida all’aula magna: – Non so se lo sapete, ma lo zero è stato introdotto dall’arabo Muhammad ibn Musa nell’Ottocento dopo Cristo, e acquisito dall’occidente grazie all’italiano Leonardo Fibonacci all’inizio del Tredicesimo secolo. Fra questo periodo e quello della civiltà sumera, dove lo zero era formato da due imbuti paralleli e inclinati, a simboleggiare l’assenza, di esso non c’è alcuna attestazione.
– Lo storico Carl Boyler tuttavia afferma che sia stato il matematico indiano Brahmasphuta Siddhānta a inventarlo, nel Sesto secolo dopo Cristo, quindi ben prima di Musa – ribatté il baffuto professorone dei professoroni, sistemandosi il cappotto di cammello che teneva sopra alla toga cerimoniale.
– Questo non lo sapevo… – ammise Aiello toccandosi il naso per sistemarsi gli occhiali rotondi.
– Signor Aiello, – infierì il professorone guardando di sfuggita il proprio orologio d’oro, – se ho dovuto avvertirti che questa non è una lezione di sociologia, allora ti avverto anche che non lo è nemmeno di storia della scienza.
– È proprio questo il vostro problema. Voi credete che vi siano degli insiemi. La stanza con dieci uomini, quest’aula, l’insieme degli atomi che compongono il sole, l’insieme degli organismi marini e non, l’insieme degli uomini e delle donne, l’insieme di chi sa e di chi non sa, l’insieme di chi guadagna come voi e di chi no, l’insieme dei numeri naturali, 0, 1, 2, racchiuso in quello degli interi -1, 0, 1, racchiuso in quello dei razionali, le frazioni, racchiuso in quello dei reali, tutti quelli con la virgola, a sua volta inscritto nell’insieme dei numeri complessi… Ah! Ricordatevi di non contare mai lo zero in nessuno di questi insiemi, l’ho detto solo perché sennò non avreste capito.
– Grazie, signorino Aiello, – disse il professorone voltandosi beffardo verso i suoi colleghi, – ma noi siamo i conoscitori delle leggi pilastro che reggono l’universo, quindi non ci serve che un bimbetto saccentello ci dia ripetizioni sulle basi elementari della matematica, che, a quanto sembra da come scrive i numeri, ha appena imparato. Lei, signorino, è affetto dalla sindrome di Dunning-Kruger, sa talmente tanto poco che crede di sapere tutto, perché quel poco che sa le sembra tutto.
– Potrei dire lo stesso di te. E comunque è sulle basi che si reggono i pilastri. Se costruisci un pilastro sulla sabbia, ciò che regge, inesorabilmente è destinato a crollare.
– La facoltà di filosofia è nell’altro plesso, signorino Aiello dell’orfanotrofio Lightbeam…
– Ho notato e non dovrebbe stare là, dovreste accoglierla a braccia aperte. Ma ho notato anche altro – disse Aiello indicando l’orologio sotto la toga del professorone. – Ho notato anche che guardi sempre l’ora. Devi andare da qualche parte?
– Ho un impegno di lavoro.
– Tu sei il Magnifico rettore del MIT, starmi a sentire è il tuo lavoro.
A quelle parole il professorone si indispose per l’ultima volta, e per il nervoso con una mano si arricciò un mustacchio sporco di crema. Poi si alzò, battendo le mani sul proprio banco. Aiello notò che il professorone dei professoroni non era un uomo imponente quanto la carica che ricopriva, bensì un ometto non troppo più alto di lui. Tuttavia si distingueva dai colleghi sottoposti per quel suo lanoso cappotto di cammello che gli sovrastava la toga toccando terra.
Il rettore quindi raggiunse la lavagna indicandovi il cerchio nero con la spirale, con cui Aiello affermava di aver dimostrato l’indimostrabile, dando un colpo di spada alla matematica stessa.
– Ragazzino, – disse l’uomo in toga, – posto che questo problema, togliendo lo zero dalla matematica possa dirsi risolto, ebbene, cosa sarebbe questo numero? Premetto che sono riuscito a decriptare la tua scrittura, ma questo. Questo Numero è più che improbabile, non può esistere.
– Anche io ero improbabile – disse Aiello di getto. Poi il ragazzino, toccandosi il naso come a coprirsi parte del volto, cercò di spiegarsi meglio: – Non è aprioristicamente un numero, o meglio, è più che improbabile che lo sia. Quello è l’Ente che lega tutti gli insiemi esistenti al posto dello zero. In quella stanza coi dieci uomini, se fai uscire tutti, non resta lo zero, perché come ci hanno insegnato gli antichi romani, dello zero si può fare benissimo a meno. Resta quell’Ente, ovvero l’acquolina che ti viene in bocca quando pensi alla pizza e la pizza non c’è. Il problema è che non ho ancora scoperto cosa sia di preciso. So solo che se lo metti a soluzione di un problema che non ha soluzioni, ecco, lui ne diventa la soluzione, perché è l’idea oggettivata della soluzione. La meccanica quantistica che si fa legge nel mondo delle cose grandi. Ipotizzo che in futuro, attraverso la mente riusciremo addirittura a plasmarlo nel reale come oggetto fisico. E penso sia verde, verde fosforescente per la precisione. Ti immagini, Rettore?! Poter toccare un numero!
E dunque, – attaccò il professorone lisciandosi l’altro mustacchio, – cari colleghi, affermo che il signorino qui presente è come quel pianista che impara due scale e pensa di aver scoperto l’ottava nota. Un falsario, ecco cosa sei, Aiello! La tua tesi di laurea è respinta, torna alle elementari dove potrai sbizzarrirti a disegnare cerchietti tutto il giorno!
Per quanto geniale, Aiello era pur sempre ancora un bambino. Non solo. Era un bambino che aveva sempre vissuto senza la famiglia d’origine e in un orfanotrofio gestito da suore. E quelle parole, infertegli dal quel professorone così odioso, ma che Aiello rispettava per via delle sue brillanti pubblicazioni, riecheggiarono nel piccolo Lightbeam come dette da un padre avverso.
E fra le risate di scherno degli allori scongelati, che chiassosamente festeggiavano la salvezza della matematica, ovvero della propria fonte di reddito mensile, il ragazzino corse su per le scale di legno dell’aula terrazzata, coprendosi le lacrime dalle cartacce appallottolate che gli volarono contro.
Quando tutti gòi accademici uscirono dall’aula per tornare alle proprie auto blu diretti in villa, il professorone dei professoroni ancora vi si aggirava. Era l’ultimo giorno di ottobre, fuori pioveva e probabilmente il piccolo aiello stava tornando all’orfanotrofio in bicicletta, rinforzando la pioggia con la propria delusione.
Dopo un poco il professorone guardò l’orologio d’oro, doveva partire. Ma, prima di lasciare l’aula diede un’ultima occhiata alla lavagna, e a quel numero-cerchio nero con dentro uno spaghetto a spirale, e, sotto i baffi cremosi, sorrise.
(Continua… Ma tu continua a leggere i contenuti speciali!)
Nuovo dialogo fra Alan Scuro e lo scrittore di Alan Scuro
- Che palle la matematica…
- Lo so, Alan Scuro, ma sta tranquillo. La matematica non esiste.
- Parli del numero Cim?
- Esatto.
- Ma lo sai che ci sarebbe anche…
- Alan Scuro, niente spoiler ‘sta volta.
- Uffa. Almeno un’immagine figa?
- Vediamo.
L’Episodio XII di Alan Scuro – Il numero Cim (parte due) – verrà pubblicato, sempre qui, il giorno 07-04-2023, alle ore 00:00.
Grazie per il vostro tempo. L’autore, Francesco Maurizi
(La storia, i luoghi e i personaggi di questo e di tutti gli altri racconti presenti in questo sito, sono frutto della fantasia dell’autore degli stessi, Francesco Maurizi, e come tali, sono protetti dal diritto d’autore.)